La tortura. La tortura nel mondo antico. La flagellazione di Cristo e la legge romana

La tortura

La tortura nel mondo antico

La flagellazione di Cristo e la legge romana


La crocifissione di Cristo


La flagellazione di Cristo



La flagellazione era molto usata anche con uomini liberi, soprattutto nelle colonie; è nota a tutti la flagellazione alla quale Cristo fu sottoposto su ordine di Ponzio Pilato. 
Luca ne parla e si limita a riportate le parole del procuratore romano: <<Dopo averlo fatto frustare lo lascerò libero>>. La testimonianza è di notevole importanza, perché mostra la volontà  di Pilato di non condannare Gesù alla crocifissione, <<limitandone>> la pena a una solenne flagellazione, che era una punizione e nulla più. 
La flagellazione era anche applicata come supplicium more maiorum, fino a quando, all'inizio dell'età della repubblica, venne abolita dal diritto romano. 
La tecnica <<consiste nell'introdurre il capo del condannato in un legno di varia foggia, chiamato genericamente furca alle cui estremità vengono fissate le mani con corde; così conciato l'infelice è trascinato per le vie della città: subendo gli scherni degli spettatori, le percosse dei carnefici, i colpi di verga dei tortores: se poi sopravvivesse ai colpi, legato a un palo nel foro, viene miseramente finito con le verghe>>. 
Quando la flagellazione precedeva la pena capitale, il numero dei colpi inflitti non era mai condizionante per il fisico del condannato; l'intera procedura assumeva anche un significato simbolico, oltre a essere una forma per distruggere ulteriormente il fisico della vittima. E' emblematica, in questo caso, la testimonianza di Abdia: <<Il proconsole dopo averlo fatto battere tre volte con sette colpi di flagello, comandò che fosse crocifisso>>.
Presso i giudei la flagellazione era un supplizio praticato abitualmente, Deuteronomio: <<Se il colpevole merita di essere battuto, il giudice lo farà stendere giù e lo farà battere in sua presenza con un numero di colpi in proporzione al suo torto: quaranta battiture potrà fargli dare, non di più, perché oltrepassando questo numero di battiture potrà fargli dare, non di più, la punizione non sia esagerata e il suo fratello resti infangato ai tuoi occhi>> ma la sua applicazione era calmierata dalla Legge mosaica. I colpi inflitti non potevano superare i trentanove: tredici sul petto e altrettanti sulle spalle. Questo limite è confermato dall'apostolo Paolo. 
Il devastante effetto delle fruste è fin troppo conosciuto: Giuseppe Flavio e Eusebio hanno riportato descrizioni in cui è detto che la flagellazione produsse lacerazioni tali al punto di esporre le ossa e in alcuni casi i visceri dei condannati.   
Se consideriamo che la pelle dell'uomo occupa una superficie totale compresa fra 1,5 e 2 mq con una superficie variabile da 0,5 a 4 mm, dove in un centimetro di cute ci sono in media contenute duecento terminazioni dolorifiche, venticinque corpuscoli tattili, quattro metri di rete nervosa, un metro di capillari e tre milioni di cellule nervose, ci rendiamo conto dell'entità della sofferenza prodotta dalla flagellazione, estesa sistematicamente su quasi tutta la totalità del corpo. 
La frusta, attraverso un meccanismo contundente di martellamento, determinato dalla forma dei flagelli, provocò certamente sul corpo di Cristo una serie di lesioni di aspetto e di dimensioni variabili in relazione alla forza impressa dai torturatori e condizionata dalla direzione da cui giunsero i singoli colpi.
Da parte di alcuni patologi c'è stato un tentativo di studiare oggettivamente quelli che sarebbero stati gli effetti della flagellazione sul corpo di Gesù: la prognosi prodotta dall'analisi della circostanze ipotizzate, sulla base di testi evangelici e sui pochi dati storici, è certamente grave. Tale da determinare la morte del condannato. 
La pena era applicata con verghe e con una frusta costituita da uno o tre lorum (corregge), ma in questo caso il numero dei colpi era limitato a tredici. 
La flagellatio ad libitum, in uso tra i Romani non fissava alcun limite al numero dei colpi che era quasi sempre lasciato all'arbitrio dei flagellatori, i quali cercavano di fermarsi prima che il condannato perisse in seguito alle sofferenze patite. 
In alcuni casi, per i delitti particolarmente gravi, si applicava il supplicium mare mariorum, in seguito abolito. In territori di provincia l'esecuzione era affidata ai militari, che utilizzarono tre strumenti, scelti in realazione alla posizione sociale del condannato: le verghe per i liberi, i bastoni per i soldati, la frusta e il flagello (flagrum e flagellum) per gli schiavi. 
<<Diversi erano gli strumenti in uso per la flagellazione e diversi, quindi, gli effetti sui corpi. La differenza era richiesta non dalla gravità del reato, ma dalla condizione sociale del reo. Se il flagellato era uno degli honestiores, cioè uno che possedeva diritti derivanti dal censo, si mettevano in attività le virgae o verbera. Se era un militare aveva diritto ai bastoni, i fustes, così pure i cittadini liberi, ma di censo mediocre. Per gli schiavi e gli humiliores era riervato il flagrum o flagellum, formato da due o tre strisce di cuoio o di corda (lora) terminanti con ossicini di pecora, astragali, dadi di legno che lo rendevano particolarmente distruttivo delle schiene (horribile flagrum). 
La documentazione storica sulla flagellazione riferibile alla tradizione giuridica romana non manca: assume toni ambigui, proponendo questa pratica come una forma di violenza integrativa alla pena capitale. In alcuni documenti romani del I secolo sono citati dei verberatores: uomini incaricati di flagellare il condannato, trascinandolo fino al luogo dell'esecuzione e issarlo sul patibolo. Questi <<professionisti>> del dolore fornivano la loro opera dietro compenso ed erano spesso chiamati a lavorare nelle case dei patrizi, oltre a rispondere ai magistrati. 
Dalla Lex Valeria (509 a.C.) fino alla Lex Sempronia, le testimonianze conservate dimostrano come fu possibile <<non tener conto dei diritti fondamentali dei cittadini che la prepotenze dei magistrati le necessità contingenti facilmente eludevano>>. 
La flagellazione, per i Romani assumeva tonalità diverse, diventando segno di infamia, riservato solo alle classi più misere. Nel caso il codannato fosse uno schiavo colpevole di un crimen laeve, il numero dei colpi da infliggere poteva essere stabilito dal suo padrone. Livio ci comunica che per motivi particolarmente gravi anche le donne potevano essere sottoposte alla pena della flagellazione. 
Quanto va sottolineato, è l'assoluta mancanza, nella flagellazione romana, di un limite da non oltrepassare; e questo dato è particolarmente importante, poiché ci permette di ipotizzare che Gesù, subendo la pena secondo la legge rappresentata da Pilato, fu quasi certamente percosso da molti colpi di flgello, destinati a devastare il suo corpo posteriormente e anteriormente. Accanto alle verghe e ai bastoni usati per la fustigazione, i carnefici romani potevano anche contare sul flagrum, sul flagellum taxillatum, o sul plumbum  plumbata di cui abbiamo ancora testimonianza attraverso le descrizioni classiche e i reperti archeologici, come il flagrum conservato nel Museo Nazionale delle Terme di Roma. 
Se osserviamo la Sindone di Torino, notiamo che sul corpo dell'uomo che vi è stato avvolto vi sono tracce di flagellazione inflitta con il flagellum taxillatum in uso alle truppe di provincia, costituito da un'impugnatura alla quale erano collegate corde, catene e strisce di cuoio con pezzi d'osso, di metallo o con piccoli manubri di piombo. 
Il devastante effetto di questa frusta è conosciuto dagli studiosi: gli scrittori dell'antichità hanno riportato descrizioni spesso tremende, che pongono in evidenza i risultati di una flagellazione effettuata con l'ausilio di quel temuto strumento di sofferenza. Tali fruste, nelle mani di abili torturatori, diventavano ulteriormente terribili. 
Questi fatti appartengono alla storia e comunque si voglia interpretarli, sono una delle tante conferme dei livelli reggenti dell'uomo, sempre così abile nell'inventare le sofferenze per i propri simili. 
Nonostante la grande diffusione raggiunta, anche la flagellazione cade in disuso; ma la diminuzione della sua applicazione fu un riflesso, ma non un'iniziativa  direttamente orientata a ridimensionare l'estensione della pena. Artefice dello sviluppo fu l'imperatore Caracalla  che, nel 212, con la Costitutio Antoniniana, estesa a tutti i sudditi, i diriti dei cives romani e in pratica li escludeva anche dalla tortura delle virgae e del flagrum. 
Dopo aver impartito l'ordine della flagellazione di Gesù, Pilato ha lasciato ai suoi uomini il compito di completare quell'opera di pensiero che, forse, gli pareva ingiusta. Dopo essere stata spogliata, la vittima fu legata a un palo o a una colonna del pretorio, dove subì la terribile flagellazione. 
La legge romana prevedeva che la vittima fosse frustata in luogo pubblico; inoltre si ha notizia di varianti praticate in area orientale, in cui le vittime potevano anche essere appese per i capelli, oppure distese a terra tra quattro pioli laterali ai quali erano legati mani e piedi. A percuotere i condannati erano i tortores, schiavi preparati in un'apposita scuola, oppure soldati comandati a questo particolare incarico, che generalmente operavano in coppia. 
Cicerone descrive i lictores incaricati di punire contemporaneamente un solo condannato; questi <<specilisti>>, che accompagnavano un numero variabile di magistrati, consoli e proconsoli, portavano una fascia di bastoni legati con un'ascia: gli strumenti necessari per la loro opera. Con la verga si colpiva e con la fascia si uccideva << i fasci, quindi, contrariamente alla credenza di molti, non erano simbolo del potere romano (rappresentato invece dalle aquile imperiali), bensì simbolo e strumento pratico della giustizia punitiva, come ai giorni nostri un modello di ghigliottina o di sedia eletrrica>>. 
Cristo fu flagellato, ma riferendoci alla tradizione del suo tempo e alla volontà di Pilato di impartire una posizione solenne, possiamo ipotizzare che i colpi inferti fossero certamente numerosi, forse determinati alla violenza di due  più tortores armati di orribili flagra, da ognuno dei quali si diramavano lorae di cuoio. 
Sulla Sindone di Torino, ne sono stati trovati novantotto, di questi conquanta sono ternari (dovuti a na frusta costituitia da almeno tre terminazioni doppie); nove hanno solo qualche traccia del terzo segno del flagello, diciotto rappresentano solo l'impronta di due punti terminali e ventuno hanno solo un segno. Studiando la posizione di tali segni, si è giunti alla conclusione che il corpo dell'uomo della Sindone fu probabilmente colpito con almeno tre flagelli. 
I carnefici furono particolarmente pesanti nel colpire, risparmiando solo una parte del torace, forse per la difficoltà di raggiungerlo o, come è stato solo sottolineato, perché si trattava di un'area delicata dove un'eccessiva sequela di colpi avrebbe determinato un <<tamponamento cardiaco da pericardite sierosa traumatica>>. 
Senza dubbio i forti traumi prodotti dal flagrum condizionano non poco il corpo già fortemente provato del condannato. Se partiamo dal presupposto che la tortura non seguì le regole della flagellazione ebraica, allora evidentemente ci troviamo davanti a un caso difficile da qualificare scientificamente. Stando alle fonti evangeliche, è certo che Cristo non morì nel corso della flagellazione; possiamo però ragionevolmente considerare questa punizione come una delle cause principali della sua rapida agonia sula croce. 
Se ci addentriamo in una più profonda analisi della morte di Cristo, ci accorgiamo che il suo martirio si compì in un lasso di tempo solitamente breve, in quanto abbiamo testimonianza di crocifissi agonizzanti sul palo da alcune ore fino a due giorni. 
Diversi <<focolai di tossine>> - così sono chiamati dai patologi gli effetti delle sofferenze precrocifissione - influirono pesantemente nel corpo di Cristo, tanto da condurlo in breve tempo verso la necrosi miocardica. Per gli altri sventurati appesi ai lati, si dovette ricorrere al crrifragium, ovvero alla rottura delle gambe, per interrompere l'esistenza terrena, e accelerare le pratiche funerarie. 












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